3 lug 2009

Andrea Rossato – Trusted Computing and DRM Systems



Andrea Rossato – Trusted Computing and DRM Systems (22 aprile 2009)

L’intervento di oggi è iniziato con un ripasso generale sulla storia relativa alla nascita del concetto di copyright ed alla sua evoluzione.
In particolare, a differenza di quanto comunemente accettato, ovvero che il copyright ha iniziato ad esistere con l’invenzione della stampa che rendeva relativamente facile effettuare copie di un libro, Andrea Rossato ha posto l’attenzione sullo Statuto d’Anna del 1709 che a suo avviso risulta essere il primo vero atto moderno relativo al copyright.
Le prime regolamentazioni erano connesse con la protezione degli editori e non degli autori. Dal 1557 infatti, agli stampatori ed editori organizzati nella Stationers’ Company, la regina Maria I di Inghilterra concesse il monopolio della stampa: in cambio questi dovevano provvedere ad effettuare una censura. In questo modo quindi il mondo politico poteva avere il pieno controllo della diffusione della conoscenza, al fine di prevenire la diffusione di materiale scomodo o non voluto. Tra l’altro chi avesse voluto pubblicare un libro, per esempio il De Bello Gallico di Cesare, era obbligato a far parte di questa associazione, e quindi ad essere soggetto alla regole ad essa imposte ed a registrare il titolo che si intendeva stampare: da quel momento in avanti nessun altro avrebbe potuto stampare lo stesso titolo in tutto il Regno Unito. E’ importante quindi notare come, alla nascita, il copyright fosse connesso ad una serie di leggi e regole create privatamente con lo scopo evidente di impedire la competizione. Questo atteggiamento era chiaramente a sfavore degli autori delle opere stesse.
Questa situazione perdurò per 152 anni, quando venne introdotto lo Statuto d’Anna nel 1709, il primo atto sul copyright al mondo. Con questo documento gli autori vedono per la prima volta riconosciuti alcuni dei loro diritti fondamentali, per esempio quello di fermare la diffusione delle proprie opere; tuttavia da parte loro gli editori vedono aumentare ancora di più i propri introiti grazie alla cessione, di fatto obbligatoria, dei diritti da parte degli autori sulle proprie opere.
Dal 1709 in avanti la storia del copyright prosegue con un proliferare di accordi bilaterali tra le varie nazioni, fino ad arrivare al 1886 quando si sente la necessità di un accordo unico a livello internazionale: questo vede la luce nella Convenzione di Berna. Prima dell’adozione di tale convenzione, accadeva spesso che alcune nazioni non riconoscessero il diritto d’autore su opere straniere. Questo creava delle situazioni in cui, per esempio, un libro pubblicato in Italia da un autore italiano fosse tutelato in Italia ma non in Germania dove poteva essere riprodotto senza alcun vincolo.
Con la Convenzione di Berna del 1886 si enuncia il principio secondo il quale ogni nazione deve riconoscere i diritti d’autore di qualsiasi opera creata da cittadini degli altri stati contraenti. Questa tutela viene riconosciuta in modo automatico senza la necessità di alcuna registrazione; inoltre stabilisce che il termine minimo di tutela di un’opera è pari alla durata della vita dell’autore più 50 anni, sebbene questo periodo sia discrezionale per ogni nazione sottoscrivente la convenzione.
Dopo più di un secolo si arriva poi al TRIPS Agreement nel 1994 ed infine al Trattato sul Copyright nel 1996, pietra miliare per quanto riguarda il copyright nell’era digitale: da quest’ultimo ebbero poi origine le varie implementazioni nazionali, vale a dire il DMCA per gli U.S.A. nel 1998 e la Direttiva 2001/29 della Comunità Europea per quanto concerne appunto l’Unione Europea.

E’ evidente quindi come l’intera storia del copyright non sia altro che un tentativo di bilanciare due poteri: da una parte quello detenuto dagli autori e dall’altra la libertà di diffusione dell’informazione. E’ per questa ragione che, a causa dello sviluppo tecnologico che ha reso più facile e più economico, praticamente a costo zero, effettuare copie, si è sentita la necessita di ridare più potere e diritti agli autori delle opere stesse: tutto ciò si è concretizzato nel DMCA nel caso degli Stati Uniti.

La trattazione è poi proseguita sulle misure tecnologiche che si stanno sviluppando per rendere più difficile, se non impossibile, effettuare copie digitali. La tendenza infatti è quella di rendere tale atto, vietato dalla legge e pertanto illegale, impossibile fisicamente tramite appunto delle nuove misure tecnologiche. La legge autorizza i detentori del copyright a creare le misure che ritengono più adatte per i loro scopi: questo atteggiamento però è molto pericoloso perché, contrariamente a quanto accadeva prima, ovvero quando le violazioni erano possibili seppur illegali, ora si stanno adottando delle misure che rendono di fatto impossibile commettere violazioni, e tale adozione è assicurata dalla legge, quindi legale. Si sta quindi violando quel difficile equilibrio messo in atto dallo Statuto d’Anna, dando nuovamente carta bianca per la creazione delle regole a chi detiene il copyright.
Per questi motivi diversi gruppi sono contrari all’adozione di misure di protezione tecnologiche, in quanto considerano questa situazione un passo indietro nel difficile contesto del copyright; inoltre alcuni studiosi fanno notare che questa tendenza appare molto pericolosa perché, qualora un’azione illegale venga vietata “alla fonte”, tramite l’adozione di misure che rendono impossibile praticare il fatto, la legge stessa non è più chiamata in causa per giudicare perché è impossibile che qualcuno compia il fatto.

Nello specifico le misure tecnologiche che si stanno sviluppando sono sostanzialmente due.
La prima riguarda i Right Expression Languages (REL), ovvero dei linguaggi che definiscono i limiti di un software: alcuni esempi sono l’Extensible Rights Markup Language (XrML) e l’MPEG21.
La seconda riguarda il Trusted Computing (TC) che è un ambiente computazionale che si occupa di leggere ed eseguire i REL. In realtà, come ha fatto notare il relatore, il TC non è connesso con i REL ma è soltanto un modo di fornire fiducia, certificando l’hardware ed il software, ovvero effettuando un controllo sul sistema di un utente per assicurarsi che detenga i diritti necessari ad eseguire un certo compito. Tale controllo è effettuato tramite un modulo, detto Trusted Platform Module (TPM), che, per esempio, controlla all’avvio del computer se il BIOS è certificato da qualche ente il cui certificato sia tra quelli autorizzati; se è così, successivamente ogni elemento viene controllato nel medesimo modo.

In conclusione è stato rimarcato il fatto che il Trusted Computing è un passo indietro nel passato: tramite il TC infatti i detentori del copyright possono usare tale tecnologia per imporre le proprie regole senza alcun riguardo per gli interessi pubblici. In tal modo, come già detto precedentemente, viene a mancare quel difficile bilanciamento creato, delegando appunto la creazione delle regole ad una sola parte coinvolta, vale a dire quella dei detentori del copyright. Inoltre tali regole non sono regole legali, bensì sono regole che rendono di fatto impossibile, non solo illegale, commettere violazioni.


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